Clima: nuovi record di metano, cosa sta succedendo?

L’aumento record delle concentrazioni di metano preoccupa i climatologi. Il CH4 ha superato 1900 ppb, mai in un anno aumenti di 15 ppb. A rischio l’obiettivo 1.5°C ribadito a COP26. Colpa del collasso del permafrost o ci sono fonti di emissione sottovalutate?

Una fiamma di combustione del gas di scarto di pozzi di estrazione di combustibili fossili e la valvola saracinesca di un metanodotto. Da questi impianti provengono perdite che incrementano le concentrazioni in atmosfera del CH4, potente gas serra. Il metano a quasi 2000 ppb è come un allarme incendio per il nostro pianeta.

L’attenzione mediatica sui gas serra è prevalentemente concentrata sulla CO2, biossido di Carbonio. Ma ci sono altri gas climalteranti su cui agiscono le emissioni antropiche o su cui si temono retroazioni che scatenano aumenti incontrollati dei gas serra e quindi delle temperature. Il metano in particolare è un gas serra 26 volte più efficace della CO2 nell’effetto serra su un tempo di 100 anni, ma sul breve periodo, vent’anni, agisce fino a 80-100 volte più potente del biossido di carbonio. Ecco cosa hanno osservato gli scienziati ultimamente e perché il processo mette a rischio l’applicazione dell’accordo di Parigi sul clima.

Le concentrazioni di metano

In atmosfera il metano, formula chimica CH4, fino all’era preindustriale era attorno a 700 ppb (parti per bilione). Alla stipula della convenzione UNFCCC a Rio del Janeiro, nel 1992, era già salito a 1600 ppb. L’aumento si era stabilizzato per diversi anni fra fine XX e inizio XXI secolo, ma dal 2007 si assiste a un repentino aumento. Nel 2020/21 poi si è osservato un incremento record di 15 ppb in un anno, superando così 1900 ppb. Di questo passo in questo decennio si supererebbero le 2000 ppb.

L’aumento pone le sue concentrazioni fuori traiettoria rispetto alle necessità di riduzione di tutti i gas serra, non solo CO2 ma anche metano e altri. Di questo passo, dato il suo effetto su breve termine, gli 1.5°C potrebbero essere raggiunti anche prima dei famigerati 8-10 anni di tempo dell’inazione.

Da quali fonti proviene il metano?

Ogni anno vengono emesse in atmosfera circa 600 milioni di tonnellate di metano. Circa il 40% proviene da emissioni naturali, principalmente decomposizione di vegetali nelle paludi. Su queste, almeno direttamente, non possiamo far granché per limitarle. La restante parte del 60% proviene da fonti antropiche. La prima fonte con circa 150 milioni di tonnellate è l’agricoltura e la zootecnica, attraverso gli allevamenti intensivi soprattutto di ruminanti. Contribuiscono poi la gestione dei rifiuti, inceneritori e soprattutto discariche nonché le fogne urbane con circa 70 milioni di tonnellate.

Sono però in rapida crescita le emissioni dovute all’uso ed estrazione dei combustibili fossili. Il gas naturale infatti nel suo uso porta inevitabilmente a perdite, pensiamo al momento in cui accendiamo un fornello ma soprattutto da fughe in metanodotti. A queste si aggiunge l’estrazione del petrolio nonché le miniere di carbone e gli stoccaggi. Queste ultime assommano oltre 100 milioni di tonnellate, con forte incremento di emissione negli ultimi decenni.

Gli allevamenti intensivi e in genere i ruminanti allevati a scopo di produrre carne e latticini sono fra le principali fonti di metano in atmosfera.

La firma del colpevole

I cosiddetti detective del clima non lasciano scampo a chi sottostima le sue emissioni negli inventari serra. Analizzando la proporzione tra gli isotopi carbonio-12 e carbonio-13 nell'atmosfera è possibile capire chi è il colpevole. Il metano di fonte biologica, proveniente dalla decomposizione microbica di vegetazione in decomposizione o nello stomaco delle mucche, è più ricco di carbonio-12, mentre il metano proveniente da combustibili fossili e incendi ha prevalenza di carbonio-13.

Fino al 2007 la rapida espansione dell’uso dei combustibili fossili ha reso l’atmosfera più ricca di metano composto da carbonio-13. Negli ultimi 15 anni la tendenza si è capovolta, nonostante l’aumento delle emissioni da combustibili fossili. Insomma, l’aumento è principalmente ascrivibile a processi naturali (paludi o permafrost) o a agricoltura e zootecnica.

Le cause della crescita più in dettaglio

Il discorso è piuttosto complesso, ma ci vengono in aiuto i satelliti. Nulla sfugge al loro sensibile occhio tecnologico. A guidare la crescita dal 2007 infatti sarebbe, come zona, la fascia tropicale e subtropicale. A questa si aggiunge la tundra subartica della Russia e le torbiere del Canada.

Il timore è che sia in atto un feedback, ovvero l’aumento della temperatura incrementa la fusione del permafrost.

In Europa da un lato calano le emissioni delle discariche ma dall’altro ci sono indizi di aumento delle emissioni provenienti dai biodigestori che convertono i rifiuti organici in compost. Altri indizi sono verso una sottostima delle emissioni dichiarate dalle società petrolifere e di estrazione e stoccaggio gas. Alcune misure svolte da ONG infatti evidenziano valori di emissione ben superiori al dichiarato. Rimane poi il problema dei ruminanti, soprattutto bovini che producono quasi tanto metano quanto le emissioni di combustibili fossili. A livello globale, circa due terzi dei terreni agricoli sono pascoli per animali.

Cosa rischiamo e che fare

Il metano verso le 2000 ppb è come un allarme incendio per l’intero pianeta. C’è un solo modo per ridurre le emissioni naturali, bisogna stabilizzare le temperature entro i famigerati 1.5°C. Le emissioni umane di metano invece devono e possono essere ridotte drasticamente e rapidamente. A COP26 di Glasgow più di 100 nazioni hanno firmato il Global Methane Pledge, promettendo di ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030. Anche l’Italia ha firmato questo accordo separato. Tuttavia i grandi emettitori, tra cui Cina, India, Russia, Qatar e Australia, non hanno aderito.

Sappiamo cosa si deve fare: bisogna ridurre drasticamente le perdite di CH4 nel suo uso come combustibile, meglio ancora evitarne l’uso. Il metano non può essere considerato un combustibile di transizione e men che meno si può chiamare ecologico. Bisogna aiutare i paesi in via di sviluppo, soprattutto delle zone tropicali, ad evitare la pratica di combustione delle coltivazioni dopo il raccolto. Infine ma non meno importante, bisogna migliorare la zootecnia e cambiare stili di vita alimentari riducendo il consumo di carne.