"Cammineremo fino alla morte": così fu la terribile odissea sulle Ande

Alcuni la chiamano tragedia. Altri, miracolo. La storia dei sopravvissuti al volo uruguaiano precipitato sulle Ande continua a commuovere il mondo. Ecco come fu l'odissea di 72 giorni che portò la volontà umana di rimanere in vita ad ogni costo fino all'estremo.

ande tragedia
I sopravvissuti al volo uruguaiano al momento dei soccorsi.

Decine di film, documentari e libri sono stati realizzati su questa incredibile storia. Le testimonianze di Fernando "Nando" Parrado, Carlos Páez, Roy Harvey, Roberto Canessa e altri 12 sopravvissuti - che all'epoca avevano 20 anni - superano qualsiasi fantasia. La saga di avversità che hanno affrontato ha dimostrato quanto lo spirito umano sia capace di lottare per la sopravvivenza.

Tutto iniziò il 12 ottobre 1972, quando il velivolo biturboelica Fairchild FH-227 dell'aeronautica uruguaiana decollò da Montevideo diretto in Cile. A bordo c'erano 45 persone: i ragazzi della squadra amatoriale di rugby dell'Old Christian Club, con familiari e amici, e 5 membri dell'equipaggio. A causa delle cattive condizioni meteorologiche, l'aereo atterrò a Mendoza decollò nuovamente venerdì 13, dirigendosi verso la sua destinazione finale. Ma un errore di calcolo del pilota avrebbe stravolto la storia per sempre. L'aereo iniziò la sua discesa molto prima del dovuto, quando si trovava ancora tra le cime monumentali della catena montuosa. Non c'era manovra che evitasse il disastro. Durante il tentativo di sorvolare una delle cime, parte dell'aereo entrò in collisione, perdendo le ali, la coda e la parte posteriore della fusoliera. Dodici passeggeri morirono in quel primo impatto.

Old Christian Club
La squadra amatoriale di rugby dell'Old Christian Club.

Ciò che restò dell'aereo finì dall'altra parte della cresta. Scivolò per circa 600 metri e si fermò in mezzo all'immensità bianca. Trentatré persone erano ancora vive. "Fu un completo disastro, morti, feriti, gambe rotte", ricorda Páez. Tra urla di agonia e dolore, coloro che potevano muoversi uscirono dall'aereo. "La notte scese rapidamente su di noi, scoppiò un temporale e fummo costretti a rientrare nella fusoliera, attaccati alle lamiere contorte, con i morti e i feriti". Quella notte altre 5 persone morirono per ferite e freddo. C'erano 28 sopravvissuti che avevano davanti a sé la più grande odissea della loro vita.

Il salvataggio che non ci fu

Con 30 gradi sotto zero, a quota 3.600 metri e senza cibo né riparo adeguato, l'unica salvezza sarebbe stata rappresentata dall'arrivo dei soccorritori. Il giorno dopo l'incidente, uno degli aerei di ricerca sorvolò l'area accendendo una disperata illusione nei sopravvissuti. Ma niente. L'infinito candore del paesaggio rendeva impossibile distinguere la fusoliera e nessuno le vedeva. Nelle valigie i sopravvissuti trovarono dei cioccolatini, una latta di frutti di mare, un vasetto di marmellata e delle caramelle. Erano solo pochi grammi di cibo per ciascuno. E i giorni iniziarono a passare in attesa dei soccorsi. Per dormire, si rannicchiarono all'interno della fusoliera cercando di condividere il proprio calore corporeo.

Ascoltavano le notizie delle ricerche di salvataggio attraverso il debole segnale di una radio portatile Spica che avevano recuperato dal bagaglio. Ma la speranza si spense dopo 10 giorni, il 23 ottobre, quando sentorno alla radio che le attività di ricerca e soccorso erano state ufficialmente annullate. Il mondo li aveva ormai dati per morti.

Fame e sete

Con i pannelli dell'aereo e la luce solare inventarono un sistema per sciogliere la neve e ottenere l'acqua. Ma con il passare dei giorni, la mancanza di cibo diventava un problema drammatico. “Tutto quello che c'era era roccia e ghiaccio. Non c'erano radici, muschi, licheni, niente", dice Harvey. Per prima cosa cercarono di mangiare le proprie scarpe, lacci, gommapiuma dei sedili, pezzi di pelle e persino plastica. Ma niente di tutto questo rappresentava un nutrimento. Dovettero quindi fare appello all'unica possibilità rimasta.

"L'idea di mangiare i cadaveri nacque in tutti noi contemporaneamente, perché avevamo tutti paura, senza speranza e certi di essere stati abbandonati al nostro stesso destino", ricorda Parrado. Fecero un patto tra tutti: se qualcuno fosse morto, il suo corpo sarebbe stato disponibile come cibo. “Eravamo già in un processo verso il primitivismo. Avevamo raggiunto la condizione più bassa dell'essere umano. Il gruppo l'aveva metabolizzato. Era l'unico modo per sopravvivere. Non volevo morire", confessa Harvey.

Viven
Scena dal film "Alive!" basato su questa storia vera.

Due dei ragazzi –Roberto Canessa e Gustavo Zerbino- erano studenti di medicina del secondo anno e fin dal primo giorno si erano dedicati alla cura dei feriti e dei malati. "Abbiamo chiesto ai ragazzi di medicina - li chiamavamo "i dottori" - di procedere con il compito di tagliare e distribuire la carne, cosa per niente facile, ve lo assicuro..." Realizzarono coltelli dai resti dell'aereo e iniziarono a nutrirsi dei resti dei loro amici. “Per noi, quello che mangiavamo erano proteine, non potevamo vederlo in nessun altro modo. Ed era l'unico modo per sopravvivere.

Quando ormai nulla poteva peggiorare...

Con il passare dei giorni, molti altri morirono di cancrena e debolezza. Fernando Parrado racconta: “Ogni giorno guardavo la montagna a ovest. Pianificavo come sarei salito, come sarebbe stata la mia strada verso la salvezza. Stavamo diventando tutti deboli. Avevo quell'equazione nella testa: dovevo andarmene prima di essere troppo debole per provarci, ma dovevo aspettare che arrivasse l'estate". Era nel cuore della notte del 29 ottobre. Diciassette giorni dopo l'incidente. Mentre dormivano, "si sentì come un branco di cavalli", ricorda Páez.

Un'enorme valanga spazzò via la fusoliera e li lasciò sepolti sotto la neve. Altri otto ragazzi persero la vita sul colpo. Gli altri rimasero rinchiusi nella fusoliera per tre giorni, cercando di muoversi, respirare e non morire. Questo episodio ha segnato una svolta. Dovevano scappare da quel luogo. Nessuno li avrebbe salvati ed era solo questione di tempo prima che morissero tutti. Quando riuscirono a scendere dall'aereo ed a rimuovere la neve dalla valanga, decisero che alcuni di loro sarebbero partiti per una spedizione.

L'ultimo viaggio: "Cammineremo fino alla morte"

Dopo la valanga la decisione venne presa. Tre di loro, quelli ancora con un po' di forza, si sarebbero messi in viaggio per chiedere aiuto. Erano Parrado, Canessa e Vizintín. Al primo tentativo si diressero verso est e dopo aver camminato per due giorni trovarono la coda dell'aereo. C'erano valigie, sigarette, una macchina fotografica e, soprattutto, batterie. Pensarono che collegando le batterie con la radio dell'aereo avrebbero potuto comunicare con il mondo. Per questo tornarono alla fusoliera, cercarono di districare e collegare i fili, ma non ebbero successo.

Rimasero isolati dal mondo. Così pochi giorni dopo decisero di riprendere la spedizione. Questa volta nella direzione opposta. "A ovest c'è il Cile" era l'unica certezza che avevano. Fernando Parrado, Roberto Canessa e Antonio Vizintin si prepararono a scalare l'enorme vetta innevata di oltre 5.000 metri a ovest, certi di vedere dall'altra parte verdi prati e segni di civiltà. Con i pochi materiali che avevano, realizzarono quanti più indumenti caldi possibile. Portavano la carne tra il tessuto dei pantaloni per nutrirsi durante il viaggio. Partirono la mattina del 10 dicembre per l'enorme montagna.

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Ci vollero tre giorni interi per scalare quella montagna. Gli altri sopravvissuti li vedevano come tre puntini che si muovevano lentamente in avanti. Quando raggiunsero la cima trovarono un panorama desolato: un orizzonte infinito di cime innevate. Non c'erano prati verdi dall'altra parte. Non c'erano segni di civiltà. La catena montuosa continuava a perdita d'occhio. Ma non si poteva tornare indietro. In quella vetta Parrado dichiarò: “cammineremo fino alla morte”.

Decisero di continuare. Parrado e Canessa avrebbero continuato verso ovest. E Vizintín sarebbe tornato per avvertire il resto del gruppo "che le cose erano molto più difficili di quanto pensassero" e che l'attesa doveva continuare. Seguirono Parrado e Canessa. Percorsero 38 chilometri tortuosi, lasciando tutta la loro forza in ogni passo nella neve. Camminarono per 10 giorni interi. Finché all'improvviso cominciò a emergere un altro paesaggio: meno neve, più terra, qualche albero, sterco di animali, una latta. Mancava poco.

Una luce dall'altra parte del fiume

Giunsero a un bivio nel fiume San José, che era troppo largo e potente per essere attraversato. Una specie di vicolo cieco. Mentre stavano pensando a come continuare, avvistarono un uomo a cavallo dall'altra parte del fiume. Era Sergio Catalán, mulattiere. Sebbene gli gridassero contro con la poca forza che avevano, non riuscivano a farsi sentire. Erano molto lontani, molto deboli, e il fiume ruggiva forte. Tuttavia, era tempo di un po' di fortuna. L'uomo distorse gli occhi e li vide.

Per capire cosa volevano, lanciò loro un pezzo di carta legato a una pietra. Parrado prese il foglio e scrisse: "Vengo da un aereo caduto in montagna. Sono uruguaiano. Camminiamo da 10 giorni. Ho un amico ferito sopra. Sull'aereo sono rimaste ferite 14 persone. Dobbiamo andarcene rapidamente da qui e non sappiamo come. Non abbiamo cibo. Siamo deboli. Quando ci cercheranno lassù? Per favore, non possiamo nemmeno camminare. Dove siamo?" L'uomo lesse il biglietto. Gettò loro dei pani e fece segno che sarebbe tornato. Questa sarebbe stata la loro ultima notte alle intemperie.

Catalán
Parrado e Canessa accanto al mulattiere Sergio Catalán.

Nel frattempo, nella fusoliera, i sopravvissuti avevano riacceso il debole segnale radio Spika, in attesa del miracolo. E quel miracolo avvenne quando sentirono due parole magiche, la differenza tra la vita e la morte: “Parrado e Canessa”. Era la fine del martirio. Fernando e Roberto ci erano riusciti. "Ci siamo sistemati, ci siamo pettinati, abbiamo distribuito i sigari che avevamo messo da parte per quando è arrivato quel momento", ricorda Harvey. Il giorno successivo, il maestoso silenzio delle montagne è stato rotto dal rumore dei motori degli elicotteri. Sono venuti in soccorso dei 14 ragazzi ancora vivi. Era il 23 dicembre, 72 giorni dopo l'incidente.

Sopravvissuti: Gustavo Zerbino, Antonio Vizintin, Eduardo Strauch, Adolfo Strauch, Ramón Sabella, Fernando Parrado, Carlos Páez Rodríguez, Javier Methol, Alvaro Mangino, José Luis Inciarte, Roy Harley, Roberto Francois, Daniel Fernández, Alfredo Delgado, Roberto Canessa, Pedro Algorta.