Una rivoluzione nel mondo della diabetologia: un nuovo tipo di trapianto per mirare a una guarigione completa
Per la prima volta, un paziente diabetico di tipo 1 da oltre trent’anni, ha ricevuto un trapianto di isole pancreatiche allogeniche senza dover assumere farmaci immunosoppressivi. Il paziente da circa 1 anno produce insulina autonomamente.

Il diabete di tipo 1 è una malattia cronica in cui il sistema immunitario attacca le cellule beta del pancreas, che producono l’insulina. Questo porta a una dipendenza a vita dalla terapia insulinica, con rischi elevati di complicanze come ipoglicemie, danni cardiovascolari e renali.
I trapianti di isole pancreatiche rappresentano una delle opzioni più promettenti per ripristinare la produzione endogena di insulina, ma sono ostacolati da due grandi barriere: la scarsità di donatori e la necessità di immunosoppressori per prevenire il rigetto. Questi farmaci, pur essenziali, espongono i pazienti a infezioni, tumori e altri effetti collaterali gravi.
Risultati mai raggiunti prima nella cura del diabete
Per la prima volta, un paziente affetto da diabete di tipo 1 da oltre trent’anni, ha ricevuto un trapianto di isole pancreatiche allogeniche senza dover assumere farmaci immunosoppressivi.
Le cellule, impiantate nel muscolo dell’avambraccio, hanno mostrato una limitata ma rilevabile attività funzionale, iniziando a produrre insulina. Il caso, che rappresenta una prova di principio di immunoescape cellulare nell’uomo, è stato descritto in un articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine da un team dell’Università di Uppsala, in Svezia.
Questo approccio nasce da una lunga fase di ricerca preclinica, condotta in particolare dalla professoressa Sonia Schrepfer, che in studi su modelli animali aveva già dimostrato come cellule così modificate potessero sopravvivere senza essere rigettate. Nell’uomo, è la prima volta che questa strategia viene testata.
Il passo importante di questa sperimentazione
Per superare l’ostacolo del rigetto i ricercatori hanno eliminato dalle cellule due segnali chiave (HLA di classe I e II) che normalmente permettono al sistema immunitario di riconoscere ciò che è estraneo.

In parallelo, è stata aggiunta una proteina protettiva chiamata CD47, la quale agisce come una sorta di segnale di non attaccare rivolto alle cellule del sistema immunitario innato, come i macrofagi.
Le cellule sono state ingegnerizzate nel laboratorio GMP di Oslo, in Norvegia, sotto la guida della ricercatrice Hanne Scholz, utilizzando una piattaforma tecnologica sviluppata dall’azienda Sana Biotechnology.
L’intervento è stato poi eseguito in Svezia, presso il centro clinico dell’Università di Uppsala, sotto la direzione del professor Per-Ola Carlsson, che coordina lo studio clinico.
"Lo studio rappresenta un primo passo concreto verso una nuova generazione di terapie cellulari per il diabete” afferma il Prof. Lorenzo Piemonti, Direttore del Diabetes Research Institute di Milano e Primario dell’Unità Operativa Medicina Rigenerativa e dei Trapianti dell’IRCCs Ospedale San Raffaele di Milano.
La prudenza della comunità scientifica
La comunità scientifica ha accolto la notizia con ottimismo misurato. Il Prof. Lorenzo Piemonti, esperto in trapianti di isole, ha enfatizzato che questa è una mera "prova di principio".

La vera sfida, secondo lui, è scalare la tecnologia alle cellule derivate da staminali pluripotenti indotte. Quest’ultime eliminerebbero la dipendenza da donatori cadaverici e renderebbero la terapia personalizzabile e ampiamente disponibile.
Questi commenti riflettono un consenso. Ossia che lo studio è un mattone fondamentale, ma servono esperimenti su più pazienti per valutare la durabilità a lungo termine e l'efficacia clinica.
Queste nuove scoperte sicuramente, entro i prossimi 5-10 anni, andranno a rivoluzionare la diabetologia, ma anche altri campi della medicina rigenerativa, applicabile a malattie autoimmuni come la sclerosi multipla o il morbo di Crohn.
In conclusione, questo trapianto rappresenta un balzo in avanti, passando da un trattamento palliativo a una vera prospettiva curativa. Per i pazienti come quello di Uppsala, è un raggio di luce dopo decenni di lotta.